Arrivato in Laos, ho subito preso la strada verso Muang Quan, vicino al confine con il Vietnam. La maggior parte della popolazione è di etnia Hmong Yah. A soli 5 km dal villaggio c’è un monastero, dove sono stato accolto da due bambine così sorridenti da farmi pensare di non essere nel posto giusto.
Mi presento a Hang, il monaco che gestisce il luogo, e vedo subito un’espressione di sorpresa quando gli parlo di Coccole e del nostro lavoro. Quando gli chiedo dei “suoi” bambini, il suo volto cambia, e con uno sguardo più serio mi porta a vedere i dormitori. Quelli delle ragazze e quelli dei ragazzi sono identici: stuoie stese a terra, panni appesi, e un odore che ti prende alla gola. I bambini, 14 maschi e 11 femmine, hanno un’età che va dai 5 agli 11 anni circa.
“Guardali,” mi dice Hang. Alcuni sono seduti nel cortile, altri nell’orto. Hanno tutti uno sguardo vuoto, quasi da zombi, che oscilla tra l’odio e l’indifferenza. Alcuni sono lì da tre anni, altri da uno. “Faccio fatica a comunicare con loro, figuriamoci a insegnargli a leggere o a scrivere. Non parlano, non vogliono giocare… Sarebbe bello portarli dalle loro famiglie, ma nessuno sa da dove provengano. E che futuro potranno avere? Noi abbiamo poco da offrirgli tranne il nostro affetto, ma anche questo, a volte, è difficile da dare.”
Nel frattempo, le due ragazze che mi hanno accolto arrivano dal villaggio vicino per giocare con i bambini. Tra loro c’è una complicità che i piccoli non trovano con gli adulti. Osservo e mi accorgo di quanto sia difficile per me entrare in sintonia con quei bambini, così chiusi e distanti. Non parlano, non sorridono come ci aspetteremmo, ma guardandoli vedo anche un bisogno di affetto che non c’è.
Le cose da fare erano tante, ma la priorità era portare otto bambini all’ospedale, che dista tre ore. Abbiamo dovuto ricoverare tre ragazze per delle cure. Rimaniamo lì tre notti, dormendo sulle stuoie (e vi garantisco che è dura, soprattutto in quel posto!). Durante il giorno, facciamo acquisti al mercato del villaggio: sanitari, scaldabagni, tavoli, sedie, vestiti, scarpe, giochi, libri scolastici… insomma, ho praticamente svuotato il mercato.
Quando torniamo al monastero con le ragazze curate, quasi tutto è già arrivato e gli operai stanno montando i sanitari. Proprio in quel momento, un operaio apre accidentalmente un tubo dell’acqua che finisce addosso a me e a un ragazzo lì vicino. I bambini, che ci stavano guardando, scoppiano in una risata collettiva. È un momento magico, unico, che dura solo dieci secondi. Eppure, è quello che rimane
Rimango con loro ancora qualche giorno per sistemare tutto, ma non solo per questo. Mi piaceva passare il tempo con i monaci, ascoltare la loro saggezza e il loro altruismo. Mi piaceva aspettare le 4 del pomeriggio, quando le ragazze del villaggio arrivavano per giocare con i bambini. Le risate riempivano l’aria e, per un momento, ho pensato che forse ci sarà una speranza… forse.
Yum, una delle ragazze che avevamo ricoverato e non mi aveva mai guardato negli occhi quando era in ospedale, al suo ritorno al monastero, durante una cena, ha incrociato il mio sguardo e mi ha sorriso timidamente. È stato un momento che mi ha davvero toccato.
Quest’anno l’esperienza è stata difficile e intensa. Cerco di concentrarmi solo su ciò che di bello ho visto, per dimenticare tutto il resto. Mi sono innamorato di loro, anche se non sarò mai ricambiato. Dopo 11 giorni, però, è arrivato il momento di partire (e vi assicuro che dopo 11 notti su una stuoia e una doccia fredda… non ho più 30 anni!).
Ora è il momento del riposo.
Grazie davvero per il vostro sostegno.
Un abbraccio,
Nir